
Alla ricerca del piacere
Un tema centrale nella comprensione dell’uomo che nel corso degli anni ha attivato la mia curiosità è il senso del piacere.
Fin da adolescente raccoglievo informazioni sui meccanismi biologici che innescano il piacere, ipotizzando l’uso di mezzi tecnici atti a massimizzarne la resa, escludendo gli effetti esiziali innescati dell’abuso.
Il piacere muove il mondo. L’uomo è attirato dal piacere come i moscerini dalla luce. Il godimento è infatti l’apparente senso ultimo del nostro soggiorno nel mondo.
Il piacere è tuttavia incontinente: sfugge. Una volta consumato, la ricompensa è tolta. L’uso di sostanze atte ad artificiare la manifestazione del piacere, riduce la sensibilità dell’organismo alla dose. Anche lo scenario più libidinoso, puranco legittimato dal richiamo selvaggio della natura, impone limiti che il maschio estrinseca nel periodo refrattario, oltreché al progressivo allentamento della tensione sessuale per la partner già felicitata. L’esperimento di Coolidge esibisce tale fenomeno in tutta la sua animale crudezza.
Fatta esperienza degli intrinseci limiti fisici ostacolanti il piacere, montava perciò in me la protesta avverso Dio.
Perché non siamo in preda a Edoné?
Il piacere provoca dipendenza e la dipendenza bisogno di dosi sempre più grandi. Ebbene, pure ipotizzando che l’esistenza di un simile limite sia di carattere ontico e perciò intrinseco nella manifestazione delle qualia (in senso fenomenologico), se il divino avesse a concederci la sua onnipotenza, potremmo essere liberati dalle conseguenze dell’assuefazione o alterare la stuttura stessa della necessità.
Quali, dunque, gli ostacoli al percorrimento edonistico del piacere smisurato?
In apparenza alcuna.
L’idiosincrasia verso la divinità è dunque giustificata? Così ero giunto a ritenere, attribuendole l’ingenua volontà sadica di pre-determinare gioie e sofferenze umane.
Quando però una verità appariva oramai consolidata, come spesso accade nella mia singolarissima vita, giungeva una risposta, che per tutto il tempo avevo avuto sotto il naso. Il divino non nega all’uomo la sua propria luce. E’ solo che quella luce si chiama inferno. L’inferno è una scelta dell’uomo. A dischiudere questa prospettiva inedita fu Jakob Lorber, nei cui scritti ebbi ad imbattermi in modo affatto inatteso.
[…] E l’angelo dice: “Bene, la tua libertà mi dispensa nel
Nome del Signore Gesù dalla mia cura per te. Perciò ti venga la
tua luce, sia!” (Oltre la soglia)
Il presente dialogo si riferisce all’incontro occorso tra un Angelo e un uomo appena defunto, rifiutante la luce dell’Essere ma ricercante la propria. Questo dialogo aveva la forza di un uragano. Che lo scambio di battute sia reale oppure il frutto dell’invenzione di Lorber poco importa. Ciò che apprendevo è che non esiste una preclusione reale del divino all’esercizio del piacere, sia pure incontrollato.
Restava da comprendere perché ciò fosse l’inferno.
Proviamo ad indagare le possibili implicazioni fenomenologiche di un piacere smisurato, privo di limes.
Poniamo anzitutto l’accento su quell’essente che prova piacere e che su di esso si interroga (l’uomo).
Quando questo essente prova piacere, la sua individualità si assenta, poiché non possono a un tempo coesistere coscienza e autocoscienza. Il piacere eclissa l’io, che è disperso nel piacere stesso. Il controllo è ristabilito solo quando lo stimolo è sopito. Piacere e dolore hanno il carattere dell’impellenza. Se la percezione del piacere (la qualia) non torna nella leteia, l’io non può ri-aversi. Anche ipotizzando un piacere segmentato, che offrisse all’io la possibilità di ri-trovarsi, stante la supposta onnipotenza concessa dal divino all’uomo, questi non avrebbe ragione per non reimmergersi nel piacere. In questo senso, l’anima defunta, attirata da un edonismo sempre più sfrenato, perde contezza di sé, disperdendo la propria essenza alla ricerca del piacere. “L’io” cesserà di sorgere e nulla avrà a rammentargli di sé, dacché egli basta all’unità estatica che è divenuto. Il sé diviene pertanto qualcosa di affatto simile al “si” impersonale dell’esserci Heideggeriano, toccandogli in sorte quel destino d’Ombra che Julius Evola chiarisce in “Rivolta contro il mondo moderno” (cap. 8: le due vie dell’oltretomba).
Come detto piacere possa quindi tramutarsi in dolore secondo la tradizione Cristiana, sarà oggetto di futura meditazione.
Questo articolo lo dedico a G.M.D., che non sento da un po’. Spero se la passi bene. Avrei voluto mostrarle l’altra luce, ma appariva refrattaria. Forse non ho fatto tutto per lei, ma ho fatto il possibile e so che a modo suo mi ha voluto bene. Che sia la sua luce.