
Il fondo
Appena un secolo fa, prendeva piede il concetto di inconscio. Un’immagine potente, a tratti spaventevole, che disarcionava l’uomo dal controllo della sua volontà. Forze oscure, inaccessibili, governano gli istinti e le pulsioni umane. Il pensiero cosciente diviene scoria di processi inconsci, flusso refluo di un cogito ben più profondo.
Sono noti all’uomo moderno i tremendi perigli cui va incontro quando, assottigliatosi, il conscio è preda dell’inconscio.
Il sonno della ragione genera mostri, suggerirebbe Goya.

Ma in un rovesciamento di prospettiva, cosa accadrebbe se fosse il conscio a violare i perimetri dell’inconscio? Prima di proludere a una risposta, è urgente definire i termini del discorso, quantomeno quelli ontici. Per inconscio, qui non si intende quella funzione strutturale del cervello, emergente in prima istanza e perlopiù dalla natura stessa dell’encefalo (riconoscimento e classificazione delle immagini, composizione linguistica pura, etc.) quanto piuttosto quella istanza seconda la cui reale natura resta ancora insondata e la cui origine trova conforto ontologico nelle qualia.
Detta funzione sovrascrive il mero riconoscimento di uno stimolo, che è selezionato tra gli altri. In un certo modo, è quella componente endopsichica gestaltiana che sceglie se mostrare una nuvola o un cavallo. Come per altri essenti refuggenti la dicibilità, il limes dell’inconscio è definibile solo per il mesto tramite di riununce alle classiche logiche dei predicati. La definizione avviene per sottrazione e non per addizione, accettando tuttavia di gestire un certo grado di indeterminatezza.
Quali dunque le conseguenze di carpire l’inconscio, dischiudendone i contenuti? Ogni ritirata dell’inconscio, ogni passo di lato, apre a un mondo. L’agire umano trova nuovi perché, il non-detto si fa ora-detto. L’etologia assume i contorni di una etiologia. Le correnti si placano e le acque si ritirano. Si comprende più da presso la natura dell’uomo e quella della donna. A seconda della direzione prevalente della irruzione del conscio nel fitto bosco dell’ignoto, una radura si incontra per prima. Una radura può essere luce isolata o condurre ad un fondo. Giunti al fondo, la noia prevale. Il dominio sull’inconscio non può dirsi mai assoluto, ma il fondo è una parete e le vie per essa sono note solo al destino. L’uomo sperimenta allora una angoscia irresistibile: un istinto alla fuga, il richiamo dei folletti del bosco.
Giunti a tanto, l’uomo è solo con sé stesso. Nessuna paura, nessuna distrazione. Solo lui e il fondo. Ahi, quanto fa male! Brucia di un fuoco disperato. Non è depressione, si è in controllo di sé. Non è dolore, non v’è unguento che possa lenirlo. Non è inferno, si vive ancora nel tempo. Cos’è allora il fondo? È la frontiera dell’illuminazione, l’atto di coraggio supremo. La morte che anticipa la morte. Io lo raggiunsi, ne tastai le lisce pareti e lo giudicai insopportabile. Corsi indietro attraverso la radura, poi di nuovo nel bosco. Pregai Dio e fui soccorso. Ma il fondo resta lì, immobile, invitto. Fa più rumore del bosco, l’orlo della coscienza. Ai pochi pellegrini del deserto, annuncia la separazione delle acque. Non il piacere, ma il dolore è aristocratico.