Simboli e nevrosi
Personalmente non ho mai riconosciuto l’importanza dei simboli. Non che le cose siano cambiate, ma dopo anni di spasmodiche letture tra questo o quello studioso della tradizione, sono finalmente giunto a una conclusione. L’etimologia della parola viene dal greco syn-ballein = “mettere insieme”, l’atto del mettere insieme sarà cruciale nella comprensione definitiva del senso del simbolo.
Leggevo di simboli di spada e di fiore, di sangue e di croce. Secondo Guènon i simboli della scienza sacra possono classificarsi come polari o assiali, con astratti richiami al Satya Yuga piuttosto che ad epoche successive.
Il simbolo è un concetto (dal latino cum capere, accogliere, prende in sè). Tanto il simbolo quanto il concetto esibiscono la natura duale dell’uomo che vi si rivolge. Nel caso del simbolo, un numero di elementi presenti al soggetto, sono compresi in un solo grafema (il simbolo).
Il concetto invece accentua la dualità tra oggetto e soggetto, ricostruendone a mezzo del loro incontro l’originaria unità. Concetto è l’io scioglientisi nell’oggetto manifesto che, dimentico di sé, semplicemente vive. L’uomo che assapora una mela non necessita di intenzionare il frutto per assumerne il sapore. Al contrario, il solo pensare all’azione corrente, ne interrompe il processo. Non che si cessi di avvertirne il sapore, ma si crea un istante cieco che concretamente separa la mente dall’oggetto intenzionato. Questo perché, come tematizzato in altri articoli su questo sito, l’io è seriale ed esclusivo. Quando sorge ad intenzionare un oggetto, il noi tramonta e l’unità collassa nella dualità. Può sembrare un’astrazione da parolieri new age, ma il tema è più serio di quanto possa credersi.
Passiamo dunque al simbolo. Esso ha la funzione di annettere, mettere insieme, più concetti.
La definizione ha senso, poiché se il concetto è la struttura esistenziale (per dirla alla Heidegger) che pone in relazione soggetto e oggetto, producendo la qualia, il simbolo permette di veicolare più concetti a un tempo. Tale definizione innesca un processo induttivo.
In futuro avrò modo di relazionare sulla base dell’induzione.
L’infante e il simbolo
Il neonato è privo di simboli. Egli semplicemente vive. Finché non si rompe l’unità, e ciò accade nel preciso atto del riconoscimento dell’altro da sé (generalmente la madre), il nuovo nato è ancora morto. La morte è intesa come il superamento della sovrastruttura culturale che andrà via via annidandosi nella sua mente e il ritorno allo stato neonatale. La parola è un simbolo, perché avoca a sé il concetto, ma non è questa la sede per determinare se sia nato prima il simbolo o il concetto. Per il momento, si presti fideisticamente riguardo all’identità tra parola e simbolo. Come precedentemente mostrato, il simbolo è un insieme di concetti. Non ne è semplicemente la somma delle parti, ma un principio inedito che si avvale dei contributi più o meno vari di concetti diversi.
Il primo simbolo che l’infante incontra è la madre. Con la madre, egli è contagiato dal principio universale femminile. Il principio universale femminile non è una astrazione. La femminilità è tribalità, dacché si avvale spontaneamente delle risorse disponibili. Ciò non implica che la generica donna (intesa come femmina dell’uomo) faccia necessariamente altrettanto. Il maschile bilancia il femminile. Non può inferirsi che il femminile sia nato prima del maschile, né il viceversa. L’unica corollario inferibile è che l’infante fa esperienza del femminile prima che del maschile.
La crescita adducente
La crescita è un processo di costruzione su livelli (auf bauen). Nel tempo, la dualità si spinge sempre più in profondità, raccoglie l’evento a mezzo della memoria e lo sminuzza perché sia pietra d’angolo per nuovi simboli e concetti. Un adulto addotto è dejetto (geworfen) in un mondo. Questo concetto è naturalmente preso a prestito da Heidegger. Tanto più la crescita dell’adulto è adducente, tanto più quel mondo è vincolante. Ogni sintassi può vantare infinite semantiche, ma quando gli assiomi propri straripano, le possibili semantiche decrescono rapidamente, sino eventualmente ad annullarsi. Ogni interpretazione è evidentemente differente da un’altra, presentanto pertanto un certo grado di incompatibilità. Esiste uno spettro di interpretazioni, tra le infinite disponibili. Alcune scelte di assiomi propri producono interpretazioni sottodeterminanti. Una interpretazione sottodeterminante garantisce solidità (soundness) ad una partizione della teoria (del mondo) a costo di rinunciare ad alcuni assiomi propri. Alternativamente produce aporie.
L’aporia è la genesi della nevrosi.
La decrescita minuente
Minuire una teoria (del mondo) significa sottrarre assiomi. Finché il set di assiomi è compatibile, è possibile individuare interpetazioni soddisfacenti. Quando il set di assiomi si allarga eccessivamente (secondo alcune regole), esso rinuncia alla propria solidità interpretativa.
Si noti che si sta passando impunemente dalla sintassi alla semantica (secondo un certo modello). Questa è una operazione che andrebbe giustificata secondo i teoremi della logica formale se si volesse formalizzare in una meta meta teoria questi miei scritti.
La decrescita minuente permette all’uomo di rinunciare ai propri assiomi, decostruendosi.
Rinunciare ad un assioma significa cavarsi un occhio, perché significa rinunciare ad un mondo.
Assioni sovrabbondanti producono nevrosi. La nevrosi non è altro che un’aporia: due mondi tra loro confliggenti.
Data l’enorme quantità di assiomi propri ereditati dall’uomo, non esistono menti prive di aporie. Un’aporia è come un nemico senza guardia, se ne può recidere l’arto senza muovere un dito.
Vulnerabilità dialettica
Nell’ambito di un processo dialeticco, la difesa tipica di chi è colto in fallo perché manifestamente in contraddizione è la rinuncia al modello. Egli abbanonderà il suo attuale modello (del mondo) per arroccarsi su interpretazioni più generose. Chi ha affrontato la decrescita minuente ne è perfettamente al corrente. E’ per tale ragione che egli incalzerà l’avversario accioché questi manifesti le proprie aporie (nevrosi). Nella maggior parte dei casi è sufficiente che l’avversario allarghi il bacino di ipotesi secondo direzioni non ortogonali, perché la precedente interpretazione perda di validità.
Vince chi non fissa la propria mente.
A questo proposito, cito:
All’inizio l’uomo non sa nulla, dunque ha una mente libera. Quando cominci a studiare, qualcosa entra nella mente, ti ostacola e le cose diventano difficili. Se riesci a sgomberare la mente da quanto hai appreso, il sapere svanirà e quando praticherai le tecniche delle varie Vie, le eseguirai perfettamente, senza pensare agli insegnamenti ricevuti (n.d.r.: l’interpretazione del mondo) e senza contrapporti ad essi. Devi intendere che questa è la Via delle arti marziali. (Yagyu Munenori, Bushido, la via del guerriero).
La croce e la placenta universale
Decostruendo via via il mondo (rimuovendo assiomi propri), il numero di mondi possibili si incrementa.
Ciò permette di comprendere i mondi altrui. Generalmente si diventa più comprensivi, per quanto la comprensione non configuri una rinuncia alla violenza.
A questo punto il sentiero si bipartisce, a seconda che a percorrerlo sia un maschile o un femminile.
Il femminile non fa esperienza del maschile, mentre il maschile fa esperienza del femminile.
La decrescita minuente del maschio è pertanto irta di ostacoli, dovendo rinunciare a un numero di assiomi propri sostanzialmente superiore. Nel suo sentiero egli sarà tuttavia anche più consapevole.
Tra i simboli atavici da decostruire, tanto per l’uomo quando per la donna, è il femminile. Esistono varie Vie per decostruire il femminile. La Via maestra è quella del dolore. Superare il femminile significa accettare la morte della madre come un evento ineluttabile. Superata l’ancestrale e bloccante paura della morte della madre, è possibile ricongiungersi all’uno.
Il femminile non è l’unico simbolo da decostruire.
Altri simboli tipicamente adducenti nell’uomo sono il denaro, l’orgoglio, la volontà (questa intesa come principio egoico).
Come ho già tematizzato, l’esperienza dell’uomo non è circoscitta alla qualia presente. Egli esiste coevo in ogni istante della propria esistenza. Dal sé infante vengono infatti richiami all’Uno.
Il battesimo è il rito che frappone la croce, tra l’uomo e l’Uno, accioché questi non sia preda del pan.
Chi è preda del pan senza che abbia decostruito ogni altro simbolo, è semplicemente spacciato.
L’occidente oggi è vittima del pan.
Si può tornare all’Uno solo a mezzo della decrescita minuente, o di una chiamata diretta di Colui che Vuole e Può.
Scrive Jung nei simboli dell’inconscio collettivo:
E’ per questo che gli sforzi dell’umanità sono stati interamente volti al “consolidamento della coscienza”, mediante i riti, le représentations collectives, i dogmi: che erano le dighe, le muraglie erette contro i pericoli dell’inconscio, comntro i perils of the soul.
Mia nota a margine di qualche anno fa: l’atto del leghein, il raccogliere, presuppone lo scadimento (nella dualità) dell’Essere. Diamo i nomi agli essenti per fuggire la conturbante paura del tutto.
Jung lascerà intendere che la croce è il simbolo dei simboli. Essa è la protezione definitiva dalle incursioni dell’Essere. La croce è l’antitodo di un occidente sempre più nevrotico. Scardinare la croce significa aprire le vie per l’inferno. La croce è il Catechon, co-lui/lei che trattiene.
Conclusioni
…