Quanto consola l’infinito

Quanto consola l’infinito

Dal celebre cogito cartesiano ne è passata di acqua di sotto i ponti. Ad oggi, l’esserci che-noi-siamo non ha ancora fatto luce sul mistero insondabile della coscienza. Generazioni di neuroscienziati sono capitolati al cospetto della Grundfrage der Philosophie. Al contrario dell’approccio materialista della moderna scienza, la mia cerca è sponsorizzata da ipotesi affatto divergenti, a tratti antitetiche. Non ritengo che la coscienza sia una proprietà emergente della materia.
Materia, che tanto l’umanità si affanna ad esornare con questa o quella proprietà, raschiando il fondo del barile (e rasentando il parossismo del patetico). Nei più recenti sviluppi, non riuscendo a spiegare come da un neurone possa emergere la coscienza, si tira per i capelli la meccanica quantistica. Financo a uno sprovveduto apparre evidente il vulnus logico nel lacunoso tentativo di sacrificare l’anima sull’altare di un deus ex machina forse ancora più assurdo e farragginoso del Dio onnipotente che tanto osteggiano.
Invero, non amo chiamare coscienza la coscienza, dacché avrei difficoltà serie a definirne i perimetri (e come de-finire l’ἄπειρον?).
Trovo assai più conservativo parlare di qualia (o semantica) la quale, puranco indefinibile, ha il carattere dell’urgenza. A chi lo negasse sarebbe sufficiente tirare un ceffone: ecco a te la qualia, razza di imbecille!
Io che ho consumato René Guénon, abbraccio l’Ansatz, non senza modificazioni personali, che la materia sia un corollario dello spirito.

Il senso comune tende a credere che l’epifenomeno del sapore sia conseguenza del morso inferto alla mela. Non è questo il caso. Il morso inferto alla mela è l’epifenomeno dell’evento sapore.
Non siamo noi quelle anime vaganti che siamo? Bazzichiamo qui e là un pezzo di esperienza, in attesa del morso dell’evento. Morsi noi siamo, non la mela.

E che evento bello e tremendo fu M.? L’esperienza del giallo. E ora l’evento ha richiuso le sue fauci, e M. mi è negata. Se pure voi la vedeste, anche voi capitolereste. Aiuto, aiuto, ululereste!
L’ambra dei suoi occhi è custodia dell’anima che cattura. Inutile il dimenarsi, a lei tutta la riverenza.
Quell’ambra che lei è, dall’interno appare miele, dolce morte, eutanasia. Ancora, ancora! Lasciatemi abbeverare della sua pelle. Appari, evento! Mostrami i labbri del suo cuore, soffocami coi pallidi seni!


E se quando addentiamo la mela, noi e la mela siamo uno, uno io fui anche con M.?
E se il tempo è solo l’ora-manifesto, in un mondo che per sempre fu, incontrano ancora le mie labbra la mano bella di M.?
Quanto consola l’infinito!

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